Antonella Manuzzi nasce a Cesena, dove tutt’ora vive, pensa e lavora alle sue opere. Il suo interesse per le scienze naturali la porta a frequentare la facoltà di Geologia all’Università di Bologna. Ad attirarla è la materia delle cose, il modo in cui le forme nascono, si consumano, si trasformano.
Materiali con i quali si confronta e sperimenta. Passa dal legno alla lana, dal vetro alla porcellana, senza badare troppo alla coerenza esterna, ma seguendo un filo interno molto preciso: imparare a far funzionare. Raccoglie rami restituiti dal mare e li lavora fino a tirarne fuori delle sculture. Recupera frammenti di vetro scartato e li assembla in mosaici. Prende fotografie, le incolla su pannelli di legno, le rifinisce con sabbia e colla, come a voler restituire alle immagini un odore, una materia. Crea pupazzi di lana cardata, nati prima come esperimento e poi come piccole presenze.
Nel 2020 inizia a lavorare ad una serie di sculture in tessuto, fil di ferro, ovatta e cotone da ricamo. È la naturale evoluzione di un processo iniziato molti anni prima: un nuovo modo di tenere insieme materiali, memoria e fantasia, dare ancora una volta forma a un’idea. Una serie di piante in vaso, create assemblando stoffe diverse cucite a mano e a macchina, una per una. A guardarle, si capisce subito che non imitano nulla: sono creature.
«Il mio lavoro è questo», dice l’artista. «L’idea che la stoffa, se la si tratta con pazienza, possa trasformarsi in cosa viva. Un modo per raccontare che anche la fantasia ha bisogno di radici, e che le radici, a volte, possono aver bisogno di filo e ovatta, invece che di terra».